Il Traforo del Sempione venne realizzatoin otto anni

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I trafori, le opere più impegnative da eseguire

Le cosiddette barriere naturali hanno costituito da sempre un limite che per secoli era quasi invalicabile, un ostacolo difficilmente superabile alle comunicazioni tra i popoli. La realizzazione di tunnel, gallerie e trafori a prescindere da come s’intenda chiamarli, rappresentano molto probabilmente l’apoteosi per quanto riguarda il movimento terra. Uomini e mezzi affiancati, gli uni sugli altri per forare le montagne e rendere quindi più facilmente il collegamento fra le Nazioni.

Alte e massicce, coperte di neve per buona parte dell’anno, le catene montuose erano invalicabili soprattutto per le ferrovie.

Di fronte a questo grave problema che ostacolava lo sviluppo delle grandi linee di comunicazione ferroviarie non vi era che un rimedio: forare le montagne là dove esse ponevano l’ostacolo al più rapido tracciato della ferrovia e farvi passare i treni. Gli ostacoli da affrontare erano numerosi e gravi. Vi era anzitutto il problema di procedere negli scavi da due imbocchi, sugli opposti versanti del monte da attraversare, in modo che il loro cammino si incontrasse. Questo problema si poteva affrontare e risolvere grazie ai sempre migliori strumenti topografici.

In secondo luogo, si trattava di assicurare la ventilazione della galleria non soltanto durante i lavori di scavo, ma anche a galleria ultimata, durante il passaggio dei treni la cui locomotiva scaricava fumo e vapore.

La prima galleria ferroviaria realizzata in Europa fu quella di Semmering, in Austria, sulla linea da Vienna a Trieste lunga poco più di 1400 metri. Essa venne inaugurata nell’estate del 1854. Quasi contemporaneamente alla realizzazione di questo tunnel veniva inaugurata la galleria del Passo dei Giovi, che attraverso l’Appennino Ligure per raggiungere Genova ed è lunga 3259 metri.

La talpa meccanica che scava le montagne

Con il termine talpa meccanica si intende la fresa meccanica a piena sezione. Questa potente macchina movimento terra, consente una completa meccanizzazione nell’effettuare uno scavo di un tunnel, inoltre permette anche che si venga a realizzare il rivestimento della stessa galleria. La Mountain Slicer, realizzata da Henri Joseph Maus, è considerata come la capostipite di tutte le scava tunnel. Questa macchina fu ordinata nel 1845 dall’allora Re di Sardegna al fine di realizzare un’opera di movimentazione terra che è passata alla storia: il traforo ferroviario del Frejus, che ancora adesso mette in collegamento il Piemonte con la Savoia francese.

La grandiosità del Traforo del Frejus

Nel 1857 iniziarono i lavori della galleria che attraversa le Alpi al passo del Frejus, detta impropriamente galleria del Moncenisio. L’opera venne inaugurata nel 1871 ed è lunga più di 12 chilometri. A dare un concetto adeguato di questa grandiosa e gigantesca realizzazione nulla vale meglio dell’enumerazione di alcuni dati: la galleria sotterranea misura 12,123 chilometri di lunghezza e il volume di roccia scavata oltrepassa gli 800.000 metri cubi. Per rivestirla internamente, tranne là dove fu scavata nella roccia durissima, occorsero 120.000 metri cubi di pietra lavorata, 16.000.000 di mattoni e 200.000 quintali di calcina per unirli insieme.

Per lo scavo vennero impiegate le prime perforatrici automatiche, un prodotto della tecnica italiana. All’Italia, del resto, per le necessità stesse della sua configurazione geografica, spetta il primato dei grandi trafori alpini. Oltre alla galleria del Frejus, che mette appunto in collegamento l’Italia con la Francia centrale e settentrionale, avendo come stazioni agli imbocchi Bardonecchia e Modane, altre quattro ne sono state scavate sotto le Alpi per facilitare le comunicazioni con gli altri Stati limitrofi Svizzera e Austria. Tra queste, quella del Sempione, lunga poco meno di 20 chilometri, inaugurata nel 1906.

La sfida del traforo del Sempione

Il lavoro di perforazione occupò 10.000 uomini per circa otto anni e costò ai primi del novecento 75 milioni di lire. Due nuovi centri sorsero agli sbocchi della galleria e vi si costruirono le case per gli operai e per le loro famiglie, caffè, posti di soccorso, negozi e luoghi di ritrovo. Gli operai ebbero speciali vestiti da lavoro, dolce calde e fredde, locali appositi mantenuti a temperatura media per sostarvi quando uscivano dalle calde viscere della montagna, prima di affrontare la gelida aria delle Alpi. Per salvaguardarli dalle esalazioni mefitiche della galleria si fece uso di macchine speciali, capaci di aspirare l’aria malsana dall’interno e di immettervi forti correnti di aria pura.

Speciali macchine irroratrici ebbero il compito di ridurre in fango la polvere sollevata durante i lavori, per impedire agli uomini di respirarla. I lavori iniziarono contemporaneamente a tutte e due gli imbocchi, con l’impiego di seimila uomini sul versante italiano, e di quattromila su quello Svizzero. Macchine perforatrici, mosse da forza idraulica, aprivano nella roccia i cunicoli per le potenti cariche di dinamite; magli, egualmente mossi dalle acque ad alta pressione, frantumavano la roccia staccata dalla dinamite e lunghi treni servivano per portare all’esterno i detriti e, all’interno, i materiali indispensabili alla costruzione di solide pareti in muratura e di lavori di sostegno nei punti nei quali la roccia franava.

Gli operai lavorarono giorno e notte avvicendandosi in turni di otto ore per ciascun gruppo. Tutte le macchine necessarie dovettero essere costruite appositamente e con l’aiuto di esse si riuscì ad avanzare all’interno della montagna a una media di 5,5 metri al giorno. I lavori procedettero senza ostacoli seri, ma ad un tratto si incontrarono impreviste difficoltà. Si giunse ad una zona di terreno molle, là dove invece ci si aspettava di trovare solida roccia. Si eressero allora enormi impalcature per fissare il terreno, ma le impalcature si sfasciarono; si tentò di ricostruirle con pesanti travi di acciaio, ma la pressione che la mobile massa esercitava dall’alto e ai lati era tale che anch’esse si contorsero come fili metallici.

Per riuscire a fissarle solidamente si dovette ricorrere all’uso del cemento armato a presa rapida, entro il quale furono imprigionate. Superata questa difficoltà gli operai si imbatterono in un’altra anche più terribile: una corrente sotterranea di acqua freddissima, 84.000 litri al minuto, inondava la galleria.

In seguito a lavori di prosciugamento, la pericolosa corrente fu deviata, e dopo sei mesi il punto scabroso fu oltrepassato. Appena ripreso il lavoro di scalo la roccia cominciò a diventare calda e poi a scottare addirittura, finché rivi di acqua bollente sgorgarono in breve da tutte le parti. L’acqua filtrando attraverso le rocce caldissime ne assorbiva il calore. Precipitandosi nella galleria il fiume vi scorreva con una portata di più di 1.000.000 di litri all’ora.

Nuove macchine furono ideate per arginare anche questa massa d’acqua, e avendo la squadra svizzera incontrato le medesime difficoltà, si cominciò a mettere in azione potentissime pompe, le quali aspirando acqua fredda dall’esterno, la rovesciavano sulle rocce scottanti riuscendo a raffreddarle insieme con l’acqua bollente che ne sgorgava. A poco a poco gli operari italiani e quelli svizzeri avanzarono verso l’ultima barriera rocciosa, caduta la quale si sarebbero finalmente incontrati.

Nel maggio del 1906 il Re d’Italia si incontrava nel cuore della via sotterranea con il presidente della Confederazione Svizzera. Un mese più tardi, dopo otto anni dall’inizio dei lavori, i treni cominciarono a correre attraverso il traforo del Sempione.

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